22 febbraio 2013: I ritratti di Edouard Manet
Visitata l’8 febbraio a Londra, alla Royal Academy, la mostra su Manet ritrattista, Manet Portraying Life, a cura di MaryAnne Stevens e Lawrence W. Nichols ( Catalogo: London, Royal Academy of Arts, 2012). Molti quadri esposti già visti, e più volte. Buon motivo per continuare nella analisi dello stile, già avviata lo scorso anno alla mostra di Parigi. La prima, sicura annotazione: il modellato del viso (se ancora in Manet si può parlare di modellato) non è più ottenuto, come era avvenuto per secoli, con l’ombreggiatura sfumata, col chiaroscuro, con quella liscia superficie che non lasciava assolutamente trasparire il passaggio del pennello, con quella meticolosa resa analitica di ogni particolare come si poteva vedere nei ritratti del coevo Léon Bonnat che riscuoteva ai Salons il più alto gradimento del pubblico e dei critici.
Manet modella il viso con campiture piatte di tono chiaro, quasi bianco, a cui si giustappongono tocchi “a macchia”, che appiattiscono il volume, tolgono statuarietà, ma accentuano luminosità, vibrazione, energia. Il volto, rispetto ai ritratti dei decenni precedenti, è meno “dolce”, meno “morbido”, molto meno “finito”, ma grazie al fare abbreviato, sintetico, sprezzato guadagna in naturalità e vivezza. La verità di un ossimoro in pittura: il troppo analitico finisce nell’astrazione, il fare sintetico dà vita a forme più realistiche e ad espressioni più naturali.
Il nuovo stile di Manet urtò il gusto consolidato del pubblico e dei critici, abituato alle sapienti gradazioni sfumate nei passaggi dalla luce piena all’ombra. Con Manet finisce la pittura “scultorea”, rotonda, che ancora si vede nel pur grande naturalista Courbet, formato da maestri davidiani. Nei modi di Manet di modellare i volti con tocchi sintetici e appena accennati “a macchia” si vede un’affinità con Cézanne, anche se in Cézanne la macchia si farà più accentuata e costruttrice della forma, come è nel ritratto di Ambroise Vollard al Petit Palais, 1899, che è già un ritratto “cubista”.
Nei ritratti maschili Manet predilige l’espressione meditativa, concentrata, intellettualmente serena, con pose tradizionali. Sono ritratti di “lunga durata”, nei quali si sottolinea con sapiente maestria l’essenza ( o l’ideale) di una vita (Zacharie Astruc, 1866; Emile Zola, 1868; Théodore Duret, 1868; Stéphane Mallarmé, 1876; Antonin Proust, 1880). Nei ritratti femminili è l’espressione psicologica dell’attimo, è l’emozione dell’istante ad attrarre e a stimolare l’immaginazione e il sentimento dell’artista. La poesia ritrattistica di Manet riesce più felice, più spontanea, più generosa, più variata ed efficace, nel ritratto femminile che non in quello maschile; e se il ritratto è doppio, o di gruppo (si pensi a Le déjeuner sur l’herbe del Musée d’Orsay, 1863, che non era in mostra), è sempre la donna a imporsi al nostro sguardo con immediatezza, e con più desiderio e con più fascino (Cantante di strada, 1862; Berthe Morisot, 1872; Il riposo (ritratto di Berthe Morisot), 1870; Emilie Ambre come Carmen, 1880; La passeggiata (Signora Gamby), 1880; La ferrovia, 1873; Isabelle Lemonnier, 1879-1882). Alla mostra mancavano i ritratti femminili di più magico incanto. Ma bastavano venti minuti di buona gamba per andare a vedere al Courtauld Institute uno dei più bei ritratti femminili di tutta la storia della pittura, Il bar alle Folies-Bergère, 1881-1882.
Come tutti i veri poeti Manet attinge ai valori della tradizione e lo si vede in ogni suo ritratto, ma nel contempo innova nei soggetti, presi dalla “vita moderna”, innova nella tecnica, nella resa dell’armonia cromatica ottenuta per contrasto e giustapposizione di toni, nella stesura fluida del colore, che lascia evidenti sul dipinto i segni del pennello: basta una di queste pennellate di colore spesso per il taglio dei libri che sono sul tavolo nel bellissimo ritratto di Zacharie Astruc del 1866 ( Brema, Kunsthalle).
In una pausa della visita, lettura di Max Liebermann, À propos de Manet, L’Echoppe 2011 (raccoglie due articoli apparsi nel 1910 e nel 1905; il pittore tedesco soggiornò a Parigi dal 1873 al 1878 dove conobbe Manet). A p. 10, contro chi critica la mancanza di immaginazione in Manet: «l’immaginazione di un artista non consiste nell’invenzione di un soggetto[…], ma nella sola e unica invenzione d’una forma per questo soggetto, vale a dire nell’invenzione di un trattamento (modo, modalità). I soggetti delle arti plastiche si trovano letteralmente per la strada; non è dunque il fatto di trovare un soggetto ciò che fa di uno un artista, ma la trasformazione del soggetto in un’opera d’arte»; p. 18: «Ogni arte è forma e ogni forma, semplificazione. Le mille forme del soggetto che l’artista vuole rappresentare si riducono nella sua testa alle più caratteristiche tra esse e, simultaneamente, la sua mano le traccia. Né la testa sola né la mano senza la testa possono produrre un’opera: testa e mano sono unite come l’anima e il corpo. La testa è il padre e la mano la madre: solo i figli che vengono da questo matrimonio sono legittimi, cioè autentiche opere d’arte»; p.19: «contenuto e forma sono non solo inseparabili ma strettamente identici, nel senso filosofico del termine: il contenuto è la forma»; p.20: «il vero pittore non cerca di dipingere nuovi soggetti ma cerca un nuovo modo di dipingere i vecchi»; p. 21: «la sola cosa che conta in arte è che il soggetto sia rappresentato in modo personale e per conseguenza nuovo».
Zacharie Astruc, 1866 (Brema, Kunsthalle) Berthe Morisot, 1872 (Musée d’Orsay)