5 febbraio 2013: Aby Warburg
Due riviste italiane di storia della filosofia si sono interessate negli ultimi anni di Aby Warburg. Katia Mazzucco, Quarant’anni di bibliofilia e iconofilia. Osservazioni sul montaggio del libro Mnemosyne di Aby Varburg, in «Rivista di storia della filosofia», 2/2011, pp. 303-338, analizza il metodo di indagine di Aby Warburg sulla scorta della esposizione di pannelli illustrativi dell’Atlante di Mnemosyne, tenuta ad Amburgo presso la Biblioteca dell’Istituto nel1927, inoccasione dei festeggiamenti per il 60° compleanno di Max Warburg, fratello di Aby e suo finanziatore. I pannelli della mostra, accompagnati da testi e libri, intendevano dopo quarant’anni di ricerca sancire un punto d’arrivo: il concretizzarsi dell’idea dell’opera di Mnemosyne, concepita come repertorio documentario e insieme apparato interpretativo in forma di atlante, che illustra le dinamiche della tradizione culturale occidentale correlate strettamente alla memoria visiva sociale, in vista di una rielaborazione di una teoria delle Pathosformeln e del linguaggio gestuale in arte. In questo modello interpretativo della storia della cultura (sarebbe più pertinente dire: del significato della sopravvivenza dell’antico per la civiltà europea nel suo complesso) il binomio parola/immagine era per Warburg fondamentale, essendovi sottesa la relazione fra tradizione testuale e iconografica, fra testo verbale e visivo, tra fonti letterarie/filosofiche e composizione pittorica. “La parola all’immagine” è il motto pronunciato da Warburg al termine di una conferenza del 1928 (p. 308). La Biblioteca è l’instrumentarium, il laboratorium di questa metodologia di ricerca, è il suo centro irradiatore, il suo vivo strumento. Il saggio non dice nulla però sulla ‘forma’ della Biblioteca, che è l’aspetto che più mi interessa.
Anche la rivista «aut aut», agosto 2004, nn. 321-322, citata in bibliografia dalla Mazzucco, esce come numero monografico col titolo Aby Warburg. La dialettica dell’immagine. Reca una antologia di testi di Warburg curata da Davide Stimilli. Nel fascicolo anche un saggio del curatore: L’impresa di Warburg, pp. 97-116, dove si compie una articolata e interessante disamina di motti e imprese usati da Warburg nel corso della sua vita (uno tra i tanti: «Trovare un pensiero è un gioco, pensarlo fino in fondo un lavoro»). Di notevole interesse è anche il significato simbolico, per Warburg, della figura mitica di Atlante, che porta sulle spalle il peso del mondo. L’autore mostra la correlazione che c’è nel pensiero di Warburg tra l’Atlante mitico e l’Atlas, l’atlante forma-libro della Memoria con il quale lo studioso tedesco intende organizzare la documentazione storica per immagini di supporto al suo modello interpretativo. Anche in questo saggio nulla sulla Biblioteca. Un aneddoto ricordato dall’autore del saggio chiarisce più di molte parole la concezione che Warburg aveva del libro: al suo assistente che catalogava i libri della Biblioteca suggeriva di non porre il punto dopo il titolo, perché “un libro continua a vivere, ein Buch lebt weiter”.
Ernst G. Gombrich, Dal mio tempo. Città, maestri, incontri, Torino, Einaudi,1999, ap. 126 pare attenuare la portata dell’innovazione metodologica e teorica di Warburg: «Si è parlato e scritto molto sul “metodo Warburg”, malgrado i miei colleghi e io stesso abbiamo spesso obiettato che un simile metodo non è mai esistito. Forse la sola cosa che molti studi dell’Istituto, se non tutti, hanno in comune è la determinazione a investigare argomenti negletti di storia della cultura occidentale – negletti perché tendenzialmente al di fuori dei confini entro cui si tengono i comuni corsi universitari». Non è un po’ riduttivo questo giudizio? Warburg avrebbe solo ampliato i campi di indagine? Ora, per ampliare i campi di indagine serve o includere nella ricerca nuovi oggetti fino ad allora trascurati o prendere in considerazione nuove fonti, che poi è la stessa cosa perché nuovi oggetti implicano necessariamente anche nuove fonti. Warburg ha invece stabilito un approccio nuovo a fonti iconografiche che erano già conosciute, selezionandole sulla base di nuove ipotesi scientifiche, comparandole, disponendole in serie diacronica, collegandole con i testi scritti di natura religiosa, letteraria, filosofica: tutto finalizzato alla interpretazione storica di ‘forme’ della cultura, espresse in immagini, che discendono dall’età antica e sopravvivono nell’Europa occidentale. Il giudizio restrittivo (o minimalista) di Gombrich è forse dettato dal fatto che egli non è mai stato pienamente attratto dal metodo di Warburg essendosi maggiormente orientato verso la psicologia della percezione, e che da questa ha inteso trarre vantaggio per lo studio della storia e per la teoria delle arti figurative. Un metodo di indagine che vedeva nelle manifestazioni d’arte per lo più ‘documenti’ dello ‘spirito del tempo’, prove e testimonianze del trasmettersi e del permanere di ‘forme’ della cultura e di ‘simboli’ sociali non doveva appagarlo sino in fondo, consapevole com’era del valore eccezionale delle singole personalità degli artisti, riconosciute anche al di fuori della loro epoca come modelli irraggiungibili. Vedere comunque di Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Milano, Feltrinelli, 2003, con prefazione di Katia Mazzucco.