21 gennaio 2013: In margine ad alcune considerazioni di Carlo Ossola su “lettera e “spirito”

Leggo sempre con grande interesse, ricavandone ogni volta un personale vantaggio,  gli interventi di Carlo Ossola sul Domenicale de’ «Il Sole 24 Ore», informati, istruttivi, ricchi di stimoli.
Non tutto però condivido di quanto ho letto ieri a p. 40, dove è riportato un ampio stralcio della Lectio magistralis tenuta dal professore al recente congresso internazionale di Caen su La bible et l’Italie entre Rénaissance et Réforme.
Alcune considerazioni di Ossola, che con sincerità devo dire più allusive che compiutamente esplicitate, mi sembrano un tentativo, letterariamente aggiornato, ma un poco ambiguo (sono sicuro che Yves Congar non vi si sarebbe riconosciuto), di proporre la vecchia apologetica cattolica del rapporto Scrittura/Tradizione in funzione antiluterana e antiriformata.
A me pare che la contrapposizione dello “spirito che vivifica” alla “lettera che uccide” sia uno dei motivi che sta all’origine della riconsiderazione della Scrittura operata da Lutero e dalla Riforma. La Scrittura non è considerata e letta dal monaco sassone come fosse un ‘codice’ di comportamenti o di storie esemplari, ma come parola vivificante, interpellante, attualissima, decisiva.
Riscoprendone lo ‘spirito’ originario, fondante una comunità di fede (s. Paolo), Lutero avverte la distanza che corre tra quello ‘spirito’ e le istituzioni ecclesiastiche, la pratica quotidiana della vita religiosa, l’insegnamento teologico e canonistico del suo tempo. Parte da qui il suo proposito di riformare la Chiesa. Ogni riforma è sempre un movimento di semplificazione, di ricerca di ciò che è fondativo, di ritorno a ciò che è essenziale per la vita (degli uomini, delle comunità civili, delle chiese, delle organizzazioni, ecc. ecc.) a fronte delle inevitabili degenerazioni e deviazioni cui portano i discordi interessi umani e l’inesorabile scorrere del tempo.
La riscoperta dunque della Scrittura, che avviene anche in Italia nella prima metà del Cinquecento ad opera di gruppi evangelici, spirituali, luterani, riformati, non è per nulla da ascrivere a un’intenzione fondamentalista: è invece un momento vivo della rinnovantesi «tradizione cristiana» (e uso a proposito il termine di Ossola), per la quale la lettura o rilettura di un testo è sempre foriera di possibilità nuove di vita, di confronto, di espressione, di sentimenti. E chi indaga i motivi, i metodi, le circostanze storiche, politiche ed ecclesiastiche che portarono in Italia alla istituzione di un efficiente sistema di interdizione di quella “riscoperta della Scrittura” non promuove una storiografia «che limita assai la lettura ‘a parte intera’ della tradizione cristiana»; opera semmai con intenzione contraria, vale a dire non per “limitare”, ma per “ampliare” quella lettura della «tradizione cristiana» italiana.
Se poi si ha la pazienza di scorrere la curatissima bibliografia che compare nei fascicoli della «Rivista di storia della Chiesa in Italia», relativa agli ultimi venti anni, si vedrà che i titoli pertinenti alla storia dell’inquisizione e della censura in Italia nel Cinquecento costituiscono una percentuale minima, insignificante, a confronto del numero di titoli pertinenti alla storia delle istituzioni, delle rinnovate opere diocesane, delle visite pastorali, delle devozioni, delle letture spirituali, delle immagini sacre, delle confraternite laiche, degli ordini religiosi ecc. ecc.
Dell’appunto che muovo alle considerazioni di Ossola non faccio una questione confessionale, non avendo io alcuna personale “confessione di fede” da proporre o da difendere. Non entro, perché non mi interessano, nelle questioni di “verità”: se sia più conforme alla fede “cristiana” la posizione di Lutero o quella decisa al Concilio di Trento. Mi appassiono da umanista, in questo specifico caso, alla conoscenza delle confessioni religiose perché trovo in esse variazioni infinite di ciò che l’uomo pensa di se stesso, delle sue sofferenze e delle sue speranze.