16 dicembre 2012: Vedere nella natura l’arte e nell’arte la natura

Più di dieci anni fa ho iniziato a frequentare con assiduità pinacoteche, gallerie, esposizioni, e a coltivare con metodo rigoroso e con amore la conoscenza del mondo poetico dei grandi artisti pittori, spinto a ciò da un rinnovato desiderio di conoscenza, da una passione sempre avvertita ma sino ad allora mai assecondata, dalla percezione che la verità dell’arte era per la mia vita intellettuale e morale assai più feconda di ogni altra presunta verità (religiosa, metafisica, scientifica, storica…),
Da quando vivo questa nuova condizione spirituale, mi accade sempre più spesso di vedere nella natura l’arte e nell’arte la natura. Non è una sensazione che scaturisce, come si potrebbe credere, dalla piacevole sorpresa per le capacità imitative dell’artista. Non c’entra l’imitazione, anche perchè la vera arte non è mai imitazione.
Ritengo invece che la frequentazione della poesia figurativa, colta come libera creazione dell’uomo di genio, possa affinare la nostra sensibilità a tal punto da rendere noi stessi in qualche modo poeti, cioè capaci di cogliere col pensiero, l’immaginazione e il sentimento la poesia (verità) che è nelle cose, che è nella natura; e, quasi per analogo riflesso, capaci di cogliere nell’arte l’espressione creatrice di nuovi mondi, di nuova natura.
La sensazione di cui sto discorrendo è descritta con parole molto più appropriate delle mie da Diderot nei Saggi sulla pittura del 1795: «Se ci accade di passeggiare alle Tuileries, al Bois de Boulogne o in un angolo appartato dei Champs-Elysées, sotto qualcuno di quei vecchi alberi che sono stati risparmiati fra i tanti sacrificati al giardino e alle adiacenze del palazzo di Pompadour, sul finire di una bella giornata, nel momento in cui il sole affonda i suoi raggi obliqui nella massa frondosa di quegli alberi, i cui rami intrecciati fra loro li arrestano, li respingono, li frangono, li spezzano, li disperdono sui tronchi, sulla terra, tra le foglie, e creano intorno a noi una varietà infinita di ombre intense, di ombre meno intense, di parti oscure, meno oscure, illuminate, più illuminate, o risplendenti: allora i passaggi dall’oscurità all’ombra, dall’ombra alla luce abbagliante, sono così dolci, così toccanti, così meravigliosi che la vista di un ramo o di una foglia attrae l’occhio e interrompe una conversazione anche nel momento più interessante. I nostri passi si arrestano involontariamente: – Che quadro! Oh, come è bello! – . Pare quasi che consideriamo la natura come il risultato dell’arte; e, viceversa, se accade che il pittore sappia ripetere lo stesso incanto sulla tela, pare che guardiamo all’effetto dell’arte come a quello della natura. Non al Salon, ma nel profondo di una foresta, tra le montagne che il sole riempie d’ombre e di luce, Loutherbourg e Vernet ci fan sentire la loro grandezza” (Saggi sulla pittura, Milano, Abscondita, 2004, pp. 28-29).