6 gennaio 2015: Paesaggio bergamasco tra realtà e retorica barocca
In queste settimane si susseguono belle giornate e nemmeno tanto fredde. In montagna, sino ai duemila metri, la neve è scarsa, strade e sentieri sono praticabili. Ne approfittiamo per lunghe passeggiate. Siamo stati in Val Grabiasca, sul Canto Alto, sulla Cima Pora, ai Canti di Valle Imagna, sul Monte Golla. Oggi, raggiunta la Malga Lunga da Valpiana sopra Gandino, siamo saliti sullo Sparavera (m. 1369), dalla tonda e ampia sommità prativa.
Per ritornare a Valpiana abbiamo preso il sentiero che scende svelto e allegro lungo il ripido pendio boscoso del Monte Barzena, il cui terreno in questa stagione è tutto ammantato di muschio odoroso e cosparso di candidi ellebori.
Dalle cime raggiunte godiamo di ampie e stupende vedute del Bergamasco, di cui, dopo anni di escursioni, sappiamo riconoscere con nostra somma soddisfazione ogni verde profilo, ogni valle, ogni pur piccola contrada. Pochi giorni fa dalle Cime di Belloro sopra Premolo lo sguardo vagava per la vasta e solatia piana di Clusone, sullo fondo la bella Presolana e le montagne innevate della Valle di Scalve. Oggi dallo Sparavera miravamo i laghi sottostanti di Endine e di Iseo intravisti tra vaporose nebbie azzurrine.
La reiterata osservazione dall’alto, e da diverse angolazioni, della mia bella e variata provincia, è un sollecito invito a concludere quest’anno, senza frapporre ulteriori indugi, la ricerca che ho avviata tre anni fa sulle descrizioni del territorio bergamasco contenute nelle lettere inviate dai parroci e dai vicari nella seconda metà del Seicento al padre agostiniano Donato Calvi, ricerca di cui ho dato un primo saggio nella conferenza tenuta a Bergamo l’8 giugno 2012.
L’erudito e ingegnoso Calvi, accingendosi negli anni Sessanta a comporre la sua opera più famosa, Effemeride sagro profana (1676-1677), si rivolse a tutti i parroci e vicari della Diocesi di Bergamo per avere informazioni storico-artistiche sulle loro parrocchie e vicarie. Molti parroci nelle loro più o meno elaborate risposte fecero cenno alle condizioni ambientali e paesistiche della parrocchia o vicaria. Lo fecero nello stile del loro tempo, discorrendo del quale Manzoni nell’introduzione ai Promessi sposi dice fatto di “declamazioni ampollose, composto a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa ch’è il proprio carattere degli scritti di quel secolo, in questo paese”.
Ciò che i parroci scrissero è per noi fonte di conoscenza del paesaggio bergamasco a metà Seicento, e si tratta in assoluto delle prime descrizioni paesistiche del Bergamasco a noi note; mentre dei modi coi quali ne scrissero è fonte della loro cultura e del loro gusto barocco, per il cui giudizio dovremo essere forse meno severi del Manzoni. Il problema critico della ricerca consiste nel discernere, e nel porre ogni ambito nel suo giusto valore, quanto in queste descrizioni è realtà, quanto è letteratura, sapendo che in ambedue i casi è sempre storia.
Per dare un’idea al lettore di quanto mi propongo di studiare, porto due esempi. Traggo i passi dalla edizione delle lettere dei parroci e dei vicari curata nel 2008 da Matteo Rabaglio e Giosuè Bonetti: Donato Calvi, Delle chiese della Diocesi di Bergamo (1661-1671), Cinisello Balsamo, SilvanaEditoriale (Fonti e strumenti per la storia e l’arte di Bergamo n. 1, collana diretta da Giulio Orazio Bravi e Simone Facchinetti).
Il primo esempio che scelgo ha attinenza con l’escursione che abbiamo fatta oggi sopra Gandino, località della media Valle Seriana, famosa in età medievale e moderna per la lavorazione e il commercio di panni. Dove si imbocca la strada che sale a Valpiana, si attraversa un’acqua che sgorga in località Concossola e che in antico azionava mulini e opifici. Sulle celebri manifatture gandinesi Pietro Gelmi ha scritto interessanti e documentatissimi volumi, cito uno solo: Scarlatto garibaldino: tintori e lanieri gandinesi secc. XV-XIX, Gandino, Amici del Museo, 2007.
Nel 1668 il parroco di Gandino, Francesco Bosio, che si dichiara “misero dottorello” laureato a Padova (p. 202), rispondendo al questionario di padre Calvi inizia la relazione descrivendo l’acqua di Concossola, fonte di ricchezza per il paese. Si ponga attenzione al lessico forbito e alle ardite figure retoriche con le quali il parroco intende imprimere nell’immaginario del lettore il significato e il valore di quest’acqua: “Alle radici d’un monte il cui luogo vien generalmente chiamato Concosla sgorga un rivo, o pur diceremo fiumicello d’acque limpidissime, che di sua natura infeconde, non solamente non producono pesce, ma se tal hora vi si ponesse, subbito muore, fecondate però dall’industria delli habitanti: sono il fondamento et l’architrave a cui s’apoggia quanto di sostanza habbiamo in questa terra. Quest’acqua per essere christallina e purissima è tanto atta a’ bagni e tinture de’ lanifitij che vale per dar pasto a ben 30 edifitij in quesata sola comunità, oltre 12 molini per il che molti delli habitanti con le sue merci perfetionate dal valore di quest’acque o per altri affari che tutti mirano alla pannina, si sono dilatati et si dilatano quasi per tutta l’Europa nell’acquisto dell’oro” (p. 195).
Traggo il secondo esempio dalla lettera del parroco di Bottanuco, che è la località da cui vengono i miei avi paterni e che si trova nella pianura bergamasca sulle rive del fiume Adda. Chi scrive è il parroco Lodovico Benaglio: “Mirasi d’intorno all’una e l’altra contrada [Bottanuco e Cerro] un’amenissima pianura, delicie di Cerere, eccettoché verso l’occidente la pendente riva del fiume di vaghe colline sparsa tutta o di ombrose selve, o di lussureggiante viti si veste. Del resto l’aria benigna del cielo, la fertilità del suolo, il commodo ed amenità che li reca il fiume Adda, dalle cui rive lietissime fontane sgorgano, e le case, che con bell’ordine hanno parte a fronte, parte a fianco le delicie hortensi, non lasciano che Bottanuco e Cerro invidijno ad altri villaggi le sue prerogative” (p. 418).
Veduta della piana di Clusone dalle Cime di Belloro Corso dell’acqua Concossola a monte di Gandino