23 dicembre 2014: Alla Villa Reale di Milano, per Giacometti
Seduto a una panchina del parco all’inglese di Villa Reale a Milano mi gusto i biscotti natalizi fatti ieri in casa, leggo poesie di Keats tentando di tradurne alcuni versi, ammiro il capolavoro di Leopoldo Pollack, il palazzo neoclassico eretto tra il 1790 e il 1796 per il conte Lodovico Barbiano di Belgiojoso. Passato a metà Ottocento ai Savoia, il palazzo acquisì la denominazione di Villa Reale; oggi è prestigiosa e fortunata sede della Galleria d’Arte Moderna.
Lentamente vado tra gli alberi, passo alla cascatella, alle grotte, al boschetto, donde godo scorci suggestivi della Villa, sosto a osservare le anatre leggere che sguazzano veloci nelle acque del laghetto in cui si specchiano la bianca facciata e il cielo azzurro.
Questo è l’angolo di Milano che più amo. Ritrovo nel cuore dell’indaffarata metropoli linee di armoniosa architettura, grato silenzio, riposante quiete, natura amica, classicismo e romanticismo.
In questa tersa giornata di dicembre mi ha riportato qui Alberto Giacometti, di cui è allestita la mostra al piano terreno della Villa. Nulla di paragonabile con la grandiosa mostra del 2009 alla Fondazione Beyeler di Basilea, che resterà irripetibile per qualità e numero di pezzi. Qui a Milano sono esposte 63 opere, tra sculture, disegni, dipinti, fotografie, provenienti dalla Fondazione Alberto e Annette Giacometti di Parigi. Bastano per lasciarsi intrigare dalle forme espressive e misteriose dell’artista svizzero. La mostra è ben curata, ottimi i pannelli esplicativi, le opere esibite con gusto e decoro. Davanti ai busti del fratello Diego, di Annette, dell’amico Yanaihara, davanti alla Grande donna IV si rinnovano le emozioni di Basilea.
Nei busti, per la cui ideazione e realizzazione l’artista costringeva i modelli a pose lunghissime, estenuanti, lo sguardo fisso, immobile, concentrato, Giacometti cercava la più perfetta resa della rassomiglianza, immaginata e interpretata in volti di assoluta atarassia, non astratta come nei libri dei filosofi, ma piena di vita e di naturalità. Lavorava la materia per sottrazione, affilando, assottigliando, come a voler togliere volume; e coi pollici e le unghie la plasmava scavando, corrugando, incidendo, per conferire alla superficie l’espressione dell’essenza intima del modello. È impressionante l’esito realista se fissiamo il busto standogli di fronte, i suoi occhi profondi e neri nei nostri occhi, se osserviamo la linea del profilo. Da quando lo vidi la prima volta a Basilea, non mi libero più del volto del fratello Diego. Me lo porto dentro come mi porto dentro indelebili le figure di personaggi dell’antica epica.
Nell’ultima sala la Grande donna IV (1960-1961) chiude la mostra. Figura alta, filiforme. Il pensiero corre alle antiche statue egizie, ai kouroi greci, umanità immaginata in idealità ieratica, solenne, in affinità con la schietta e ferma colonna del tempio. In queste eteree sculture vive artisticamente un ossimoro: lo sfaldarsi della materia mentre essa si eleva potente verso l’alto, un gioco d’intelletto e d’immaginazione che dona a queste donne e a questi uomini carattere, gravità, forza nella loro sublime precarietà.
La Grande donna IV è collocata contro la parete della sala. Come mi sarebbe piaciuto vederla in maggiore spazio, poter girare attorno per viverla nella sua misura e nella sua aura fascinosa! Mi sarebbe anche piaciuto che le imposte delle ampie finestre fossero aperte, e che le sculture disposte nella sala fossero rivestite di luce e ombra naturali; con il bel parco sullo sfondo, avrei visto questa grande donna rivaleggiare in maestà e grazia con gli alberi monumentali nella chiarità dell’azzurro.