21 maggio 2012: Roberto Calasso, Il Rosa Tiepolo

Roberto Calasso (Il Rosa Tiepolo, Milano, Adelphi, p. 26) rimprovera Longhi di essere stato il “più ingiusto dei critici” di Tiepolo, facendolo “il Cattivo da contrapporre al Buono per eccellenza, che era inevitabilmente il Caravaggio. Al punto che sentì la necessità di farli incontrare e conversare in cielo, come se anche lì Tiepolo dovesse essere perseguitato da qualcuno pronto a fargli la lezione”. Alle pp. 28-29: “Il manifesto di Longhi (perché di questo si tratta, come fosse il programma di un partito) è racchiuso nella rivendicazione del Caravaggio, che attraversa tutta la sua vita e culmina nella introduzione alla mostra del 1951, a cui seguirà la monografia Il Caravaggio, nel 1952, sistemazione (provvisoriamnente) definitiva, a distanza di quarantun anni dalla tesi di laurea. Testo poi ripreso e allargato, con numerose varianti, nell’edizione del 1968”. Perché, si chiede Calasso “gravare questa pittura [di Caravaggio], come fosse un uomo-sandwich, di una inutilmente ripetuta «carica rivoluzionaria», con annessa variante trockista di «rivoluzione permanente»?”. Dare l’esclusiva di moderno al Caravaggio e di moderna alla linea discendente dei realisti e naturalisti sino a Courbet e Degas, come fa Longhi, vuol dire praticare “una poetica della faziosità” (p. 30), di cui Longhi aveva dato prova sin dagli esordi col suo profondo disprezzo per la pittura del Nord. Faziosità che ha la pretesa di credere “che la pittura [si sia svolta] seguendo una singola linea legittima e scartando sdegnosamente qualsiasi aggregazione spuria […] di volta in volta rappresentata da Füssli o da Ingres o da Friedrich” (p.31).
Longhi raggiunge nei confronti di Tiepolo “lo spasimo dell’esacerbazione non soltanto per incresciose ragioni politiche, ma – più occultamente – perché intravedeva in Tiepolo un’alternativa a quel Moderno di cui aveva nominato capostipite il Caravaggio. E questo doveva roderlo ben più in profondo, perché Longhi era un monomaniaco della pittura, mentre è dubbio che il suo cuore battesse per la causa proletaria. Forse il Moderno non era cosa tanto semplice, e soprattutto non necessariamente adatta soltanto a quei «sentimenti semplici» che Longhi avrebbe surrettiziamente attribuito a Caravaggio” (p.34).
Che cosa ostacolava Longhi nel capire Tiepolo? “L’ideologia del realismo all’italiana e (non meno pressante nella psiche di Longhi ) la stizza verso gli studiosi en titre di Tiepolo, innanzitutto Morassi. Ma per Tiepolo la parola realtà non poteva essere usata come parola d’ordine, vagamente militaresca. E il suo «scetticismo altezzoso» difficilmente gli avrebbe consentito di farsi accogliere fra gli eversori militanti” (p. 33).
Per Calasso Tiepolo è felicità, luminosità, sprezzatura (contro l’affettazione, per la grazia), gioco, teatro, maschera, travestimento, “un idolatra della luce travestita da essere umano” (Giorgio Manganelli, citato a p. 22). “Tiepolo esorbita da ogni cornice della pittura settecentesca e diventa del tutto opaco se interpretato all’interno di uno sviluppo storico. Era solo una tardiva propaggine di Veronese? Era solo un grande virtuoso, pronto a celebrare trionfi secolari ed ecclesiastici, pagani e cristiani, mitologici e dinastici? Era fedele alle intenzioni dei committenti, alle quali si contentava di aggiungere una qualche dose di estro? Se intesa su questa falsariga, l’intera opera di Tiepolo si appiattisce come un castello di carte urtato da una mano impaziente. Mentre chiunque frequenti a lungo la sua pittura non riesce a sbarazzarsi del sospetto che Tiepolo non usasse i suoi trionfi in funzione dei singoli personaggi rappresentati, ma usasse quei personaggi in funzione del trionfo stesso. Il quale, a sua volta, potrebbe anche non essere altro che un nome occidentale e ostentatorio di quella che, in un diverso continente, fu chiamata māyā: non solo «illusione» e «apparenza», ma anche «magia misuratrice», tessuto di cui è fatto il mondo, secondo il significato che la parola ha nei testi vedici, prima che nella versione vedantica” (pp. 38-39).