9 maggio 2012: Esercizi biblici

Trovandomi oggi di turno nella Biblioteca “Girolamo Zanchi” del Centro Culturale Protestante (la Biblioteca, via Tasso 55- Bergamo, è aperta al pubblico il mercoledì, dalle 17.00 alle 19.00), ho approfittato delle opere esegetiche che vi sono custodite in gran numero per chiarirmi la corretta interpretazione di due passi biblici.
Nel primo passo, 1 Re 19, 11-12, mi sono imbattuto leggendo Pagine di diario di Bernard Berenson, Milano, Electa, 1958, p. 152; nel secondo passo, Sal. 68,16, leggendo il libro IX delle Confessioni di s. Agostino.

Il primo passo. Le moderne traduzioni interpretano che Elia avvertì la presenza (il passaggio) di Jahvè sul Monte Sinai non nel soffiare di un vento impetuoso, non nel terremoto, non nel fuoco, ma nel “mormorio di un vento leggero”, oppure nel “sussurro di brezza leggera”. Paolo Micca, su «Riforma» n. 32 del 26 agosto2011, a p. 7, scrive che l’esatta traduzione dell’originale è “nel suono di un silenzio sottile” e aggiunge “Dio si comunica all’uomo non solo nella Parola ma anche attraverso il silenzio”. Cita Ab. 2, 20: “Ma Jahvè è nel suo santo tempio: faccia silenzio al suo cospetto tutta la terra”. Penso che Berenson, fra l’altro di origini ebraiche, quando cita questo passo per invitare coloro che contemplano opere d’arte ad avere lo stesso atteggiamento di un Elia, avesse presente il senso letterale dell’originale: contrappone infatti il necessario silenzio che deve accompagnare la contemplazione dei dipinti alle chiassose frotte di turisti che si aggirano frettolosi per i musei. Cimabue per dipingere ricercava solitudine, silenzio e buona luce (Vasari). La pittura è arte del silenzio (Lessing, Proust).

Il secondo passo. Ormai tutte le versioni moderne traducono correttamente Sal. 68, 16: “Monte di Dio, il monte di Basan, monte delle alte cime, il monte di Basan”. I Settanta invece interpretarono Basan non come nome proprio (altopiano dei monti di Basan, di origine vulcanica, donde la fertilità, a est del lago di Genezaret, oggi Hauran), ma come nome comune per “pìon”, ubertoso, pingue, e specificarono ulteriormente la qualità del monte con “òros teturoménon” (turòs, cacio, Iliade XI, 639: aìgeion turòn, cacio caprino; Odissea IX, 219-232); e furono poi seguiti da s. Girolamo che nella Volgata traduce: “mons Dei, mons pinguis, mons coagulatus, mons pinguis”. I Settanta e s. Girolamo furono forse indotti a seguire questa interpretazione da altri passi in cui i monti di Basan sono detti ricchi di armenti (Deut. 32, 14: vi è latte di vacca cagliato e grasso di agnelli; Ez. 27,5; 39,18, Am. 4, 1), di tori (Sal. 22, 13), di pascoli (Ger. 50, 19; Mi. 7, 14), di querce (Is. 2, 13). Ora s. Agostino nelle Confessioni (IX, 5,19), dopo aver ricordato la generosa ospitalità offerta da Verecondo a lui e al suo gruppo nella campagna di Cassiciacum (odierna Cassago in Brianza?), dove fra l’altro il catecumeno Agostino si dedicò a una intensa meditazione dei Salmi, morto di lì a poco l’amico che l’aveva ospitato, prega Dio perché “reddis Verecundo pro rure illo eius Cassiciaco, ubi ab aestu saeculi requievimus in te, amoenitatem sempiterne virentis paradisi tui, quoniam dimisisti ei peccata super terram [e qui Agostino cita il verso del nostro salmo come è interpretato dalla Volgata] in monte incaseato, monte tuo, monte uberi”: sopra la montagna ricca di formaggio, la tua montagna, la montagna dell’abbondanza. E’ evidente l’intento retorico di Agostino nel far vedere l’assonanza di Cassiciacum, la campagna dove era il podere di Verecondo, con incaseato, per analogia la qualità del monte di Dio, ricco di pascoli e di formaggi, dove ora per sempre Verecondo abiterà.