9 febbraio 2014: Giuseppe Pontiggia, “La grande sera”
Continuando il disordinato (voluto) programma di letture di narratori italiani del Novecento, ho letto in questi giorni La grande sera di Pontiggia (San Paolo 1997, prima edizione Mondadori 1989). Pontiggia è scrittore moralista, nel senso nobilmente umanistico della parola moralista, come la intendiamo quando pensiamo a Erasmo, a Montaigne, a Nietzsche.
La trama del romanzo è in funzione della rappresentazione, con andamento simmetrico, di figure-tipo della società milanese degli anni Ottanta. La resa dei personaggi è viva, efficace, naturale; ma solitamente non mi piace l’azione (la trama) al servizio dei caratteri; preferisco al contrario i caratteri al servizio dell’azione, meglio ancora: i caratteri che si fondono nell’azione, che si fanno azione. Rimarrò sempre un irriducibile aristotelico.
Nella delineazione dei tipi Pontiggia ama svolgere i tratti psicologici con ricercate, e qualche volta un po’ troppo sofisticate, analisi dialettiche, capaci di svelare i doppi sensi insiti in un gesto, in una parola, in un comportamento; di mettere a nudo ambiguità, ammiccamenti, sottintesi, camuffamenti, ipocrisie.
Virtuoso della parola, Pontiggia ricorre di frequente alla figura dell’ossimoro (“…manager che scrutano, con simpatia rapace, l’interlocutore…”, p. 49), che è indizio retorico-letterario del suo straripante gusto dialettico. Bravissimo nell’intervallare l’analisi dei tipi con dettati aforistici, brevi, incisivi, ora gravi ora ironici. Straordinario nei dialoghi, spesso per ogni scrittore così difficili da riprodurre col tono e con la misura di un vero parlare.
Estraggo dalla ricca miniera del romanzo tre bei aforismi: “Spesso, quando si cerca di convincere gli altri, si tenta solo di placare i propri dubbi; e non c’è da stupirsi se si fallisce in entrambi gli intenti” (p. 36); “Quante volte gli aveva detto [padre a figlio] che i giovani come lui non sapevano più vedere, ascoltare, amare. Giaculatorie che ogni generazione trasmette all’altra nella tradizione della stupidità” (p. 88); ” – No, deve assumermi, mi occorre ben altro spazio – aveva risposto lei, esagerando probabilmente le proprie competenze, come fanno in genere quelli che ne hanno poche ( i grandi esperti non fanno che rimpicciolirle)” (p. 144).
Molto Seneca in questo passo, che ha tutta la mia condivisione: “Con gli occhi chiusi, nella stanza afosa, riuscì a non cedere alla commozione che la invadeva. Non voleva essere felice, ma migliore. Come era in quel momento, nella sera che scendeva tra le case, nella accettazione di sé e del presente” (p. 197).